Attacchi di panico
Attacchi di panico: quando il corpo non tiene più insieme
Sempre più persone oggi si confrontano con uno stato di terrore improvviso e paralizzante, spesso indicato dalla clinica contemporanea come attacco di panico. Si tratta di episodi intensi e apparentemente inspiegabili, in cui il corpo sembra impazzire: tachicardia, sudorazione, tremori, difficoltà respiratorie e senso di svenimento possono far temere la morte o la perdita totale di controllo. Molti arrivano a richiedere un parere medico urgente, per poi scoprire che l’origine della sofferenza non è organica, ma psichica.
Per comprendere davvero il panico, è necessario dire qualcosa sull’angoscia.
L’angoscia, nella prospettiva psicoanalitica, non è solo un sintomo dell’ansia o dello stress, ma un segnale profondo, legato a una mancanza o a un pericolo vissuto come insopportabile. Freud la descriveva come il segnale di un pericolo interno, spesso legato a un’esperienza di separazione, di perdita di legame, di abbandono.
Il panico può essere letto, quindi, come un’angoscia che ha perso il suo legame simbolico, e che si riversa nel corpo, improvvisa e senza nome. Quando non si riesce più a dare un significato al proprio malessere, quando non c’è più un senso che aiuta a tenere insieme l’esperienza, il corpo esplode, cercando di esprimere un dolore che non trova appiglio nelle parole.
Parafrasando Freud, potremmo dire che gli attacchi di panico parlano di una perdita del legame sociale tra il soggetto e l’Altro, quest’ultimo inteso come cornice di senso che dà significato al soggetto stesso. Un venir meno della fiducia di poter contare su qualcuno, su qualcosa, su un senso. È come se la persona, improvvisamente, venisse travolta da un’assenza, da un vuoto che fa crollare ogni certezza.
A tal proposito, è impossibile ignorare quanto la società attuale contribuisca a creare le condizioni di questo malessere diffuso.
Viviamo in un tempo che promette felicità immediata, godimento assoluto, accesso illimitato a ogni oggetto di desiderio. Ma in questa corsa sfrenata al “tutto e subito”, il soggetto viene smarrito. Il tempo dell’interiorità, dell’attesa, del pensiero, viene sostituito da un ritmo frenetico che non lascia spazio per elaborare la mancanza, il lutto, il dubbio. Gli oggetti si consumano, ma non nutrono. Le relazioni si moltiplicano, ma diventano fragili. Il legame sociale si indebolisce, e con esso la capacità di contenere l’angoscia.
Il panico, allora, può essere visto come una rottura degli argini, un momento in cui il soggetto non riesce più a tenere insieme le proprie parti. Il corpo non obbedisce più, non risponde più al controllo cosciente: si agita, scompone, esprime il caos che il soggetto non riesce a simbolizzare. È la manifestazione di un’esperienza di scompaginamento, di qualcosa che non tiene più insieme l’io e il mondo, il dentro e il fuori.
Gli attacchi di panico non sono “crisi isteriche” né reazioni esagerate. Sono segni di una sofferenza autentica, che si esprime attraverso il corpo quando le parole non bastano più.
Accogliere il panico significa restituirgli un senso, riconoscerlo come un segnale e non come un nemico da zittire. Il lavoro terapeutico può aiutare a ricostruire quei legami simbolici che permettono al soggetto di dare forma al proprio sentire, di riappropriarsi del proprio corpo e della propria storia.
Il panico non è una condanna: è una chiamata, spesso dolorosa, a rientrare in contatto con se stessi.

